Quando ci si innamora non si sa, almeno all’inizio, che dentro ciascuno dei due amanti vi sono tanti personaggi: che si amano e detestano, si cercano e si sabotano.
Certo, il cappotto fu galeotto,
non è da tutti entrare nel negozio più bello di Milano, con aria da principe, e scegliere un oggetto così di lusso, firmato, elegante, di un morbido che non avevo mai neppure immaginato e di un taglio così perfetto che quando l’ho indossato ho saputo che non me lo sarei tolta, che sarei uscita così, rossa come una fiamma, come un guizzo ardente, flessuosa e bella come una dea.
Sentirmi dea e volere accanto un dio fu tutt’uno; non è che me ne accorsi subito, lo capii a mano a mano che tu eri sempre meno divino, acciaccato tra il quotidiano tran tran dello studio, del rientro a casa, del prato da tagliare la domenica mattina, dei tuoi piccoli tic che cominciavo a trovare sempre più irritanti. Mica potevo, a questo punto, indossare il cappotto tutto il giorno e tutti i giorni. La magia guizza nella vita con i suoi ritmi, la attraversa quando meno te l’aspetti, poi fruscia via come una serpe lucida. Lucida, sì, a me la cucina piaceva lucida, il piano di cottura d’acciaio, bello liscio come mi era stato insegnato. Anche tu lucidavi la tua auto, e su quel lucido li non ti sei mai infastidito, anzi. Rispecchiarsi sulla portiera argentata, lo so, ti dava gioia; rispecchiarsi sui fornelli non ti ha mai sfiorato il cervello, neanche solo per fare un piacere a me. Mi rendo conto che anche il mio, di cervelli, si era stranamente arzigogolato con il matrimonio, lo ammetto. Prima, pur essendomi stato insegnato assieme a mille altre cosucce di cura domestica, strofinare un piano d’acciaio fino a farlo brillare non era mai entrato tra i miei sogni, e mai mi sarei immaginata che potesse darmi una tale soddisfazione.
Altre cose presero a darmi soddisfazione,
o forse solo fissazione, dopo che ci siamo sposati, tutte cose che prima non oberavano la mia testolina ricciuta, come la chiamavi tu, quando tentavi di accarezzarmi in modo scherzoso, per portarmi via dai fornelli o dallo sgombero dell’armadio. È vero, prima la tua mano giocosa tra i miei capelli mi dava piacere; ma poi diventò fastidiosa, esigente, fuori luogo e fuori ora. Gli orari, ecco, gli orari ci hanno diviso. Io ho scoperto, quando la fede d’oro ha brillato sul mio dito, che gli orari mi piacevano un sacco. Mi davano sicurezza, gli orari erano morbide protezioni contro gli eccessi e i rigori della giornata, con i suoi impegni aguzzi e le sue richieste assillanti. Mettere il confine degli orari diventò la mia ancora di salvezza… e i tuoi occhi stupiti e spalancati, ogni volta che ti dicevo – non è l’ora! Spalancavi pure la bocca e diventavi brutto… come avrei potuto mollare la morbida ciambella degli orari per precipitarmi in qualche tuo gioco stravagante, in qualche tua proposta fuori orario e fuori luogo e fuori tutto!
Che poi, quando arrivava l’orario giusto per me, quello dove mi sentivo morbida e fluida, tu eri in garage a montare gli scaffali per i tuoi oggetti meccanici, oppure davanti alla televisione per qualche programma politico che ti appassionava.
Ti odiavo quando mi chiamavi “zia”.
Lo so che volevi provocarmi, distogliermi dai miei impegni per entrare nel tuo, di mondo… ma già appena la pronunciavi, l’orrenda parola, avrei potuto ucciderti. Vedi, forse avrei voluto che tu mi sollevassi di peso e mi trascinassi via da tutto, dal bisogno di ordine e dalla correzione dei compiti, dall’assillo delle provviste e del voler fare una capatina ogni sera dai miei, che tanto sono sulla strada di casa. La tua casa ora è la nostra! dicevi, e io ero disperatamente d’accordo con te, ma non mi hai mai fermato, non mi hai mai strappato dalla figlia che sono, dalla mamma della mamma e del babbo e dei fratelli e pure del cane che è rimasto dai miei ma che, lo so, è felice di vedermi e gli manco.
Ti avrei voluto deciso,
così deciso da portarmi davvero via, nel nostro mondo che io volevo armonioso e tu rendevi caotico ad ogni passo, ma in quel guazzabuglio avremmo potuto piantare la nostra bandiera, se tu mi avessi bloccato, fermato, principe e guerriero. Ti volevo deciso e tu eri gentile. Ti volevo Rambo, ma un Rambo elegante. Tu, al massimo facevi le battutine sulla zia, come se non fosse stata antipatica anche a me! Con quella sua fissa di ogni cosa al suo posto… sì è vero, troppo spesso ha preso il mio posto, ora che sono lontana lo posso dire, lo posso vedere. Ma a te non lo dirò, mio caro, che ti sei accontentato di battute e attese, di sorrisetti e tentativi di corteggiamento nei momenti meno opportuni.
Non sei stato all’altezza, tutto qui.
All’altezza delle mie paure abissali, dei miei palpiti nascosti, delle mie ubbie di figlia devota, delle mie rabbie impotenti, delle mie lacrime straripanti, dei miei capricci da bambina viziata, di quel guazzabuglio che è il cuore umano, che batte di mille ritmi e va tu a sapere qual è quello giusto. Che poi, questo mio cuore, continua a battere per te, anche da qui, da questa casa sconosciuta dove sono rifugiata per non finire dai miei, e cammino cammino e macino chilometri avvolta nel nostro cappotto rosso, sperando che tu mi incontri e mi riporti a casa, con quella tua faccia da principe diseredato, da fanciullo sbadato, da professore saputello, da gentile sprovveduto.
Ora verrò a camminare sotto casa, rossa come una fiamma, e tu vedrai il bagliore dalla finestra, e scenderai, lo so che scenderai, e saremo, almeno per un istante, belli ed eterni come due dei.
Se questo articolo-storia ti è piaciuto, grazie per condividerlo e/o commentare. Si cresce meglio insieme.
Se ti interessa il tema della coppia, puoi leggere: https://www.innerteam.it/libri/lovely-planet-relazioni-di-coppia/
Franca
0 commenti