Alla vigilia dell’importante convegno internazionale che si svolgerà a Savona in settembre, ci sembra utile portare alla vostra attenzione questo ed altri lavori sul tema. “Quello che ignori persiste, quello che guardi sparisce” (D. Walsh)
Introduzione
La ricerca epidemiologica degli ultimi vent’anni ha mostrato che a circa il 2-4% della popolazione accade di sentire delle voci, con le caratteristiche di allucinazioni uditive. Nella maggioranza dei casi non è presente un disturbo mentale (Eaton, Romanowski & Anthony, 1991; Sidgewick, 1994; Tien, 1991). Recentemente questo fatto è stato dimostrato anche dallo studio olandese NEMESIS, uno screening su settemila persone realizzato dall’Istituto Trimbos (Bijl, Ravelli & Van Zessen, 1998). Spesso gli operatori sono sorpresi da questo dato, perché essi incontrano solo le persone che sono realmente disturbate dalle voci. Inoltre la ricerca ha mostrato che la differenza tra coloro che richiedono aiuto terapeutico e gli altri è legata a ciò che attribuiscono alle voci, in termini di paura e di potere (Chadwick & Birchwood, 1994; Romme & Escher, 1989).
Non c’è dubbio che udire le voci è spesso collegato a sintomi come depressione, ansietà, dissociazione, tendenze suicide e convinzioni persistenti. Circa un terzo delle persone che sentono le voci ne soffrono a un livello tale che ricercano un aiuto professionale (Tien, 1991). Tuttavia, sono anche numerose le persone che si sono allenate o hanno appreso come gestire le voci (Romme & Escher, 1999).
Molti disturbi mentali hanno tra i loro sintomi l’udire delle voci. Nel trattare questi pazienti, noi ci focalizziamo sul sintomo e sulle conseguenze sperimentate nella vita quotidiana. Negli anni, gli psicologi cognitivisti hanno sviluppato vari metodi per trattare queste persone (cfr. Haddock, Bentall & Slade, 1996; Martindale, Bateman, Crowe & Margison, 2000; Romme & Escher, 1999). In Olanda diversi gruppi sono coinvolti in questo lavoro; tra gli altri: Jack Jenner a Groningen, Ben Steultjens a Ermelo, Mark van der Gaag a Leyden e Lucia Valmaggia ad Assen. Senza eccezioni, i loro metodi puntano a rendere la persona capace di gestire le voci; i metodi maggiormente utilizzati derivano dalla terapia comportamentista e dalla psicologia cognitivista.
Metodi di trattamento
Romme e Escher (1999) hanno raggruppato i metodi e le tecniche di trattamento in relazione al tempo che richiedono.
Tecniche a breve termine
– Ascolto. I clienti sono incoraggiati ad ascoltare attentamente le voci. E’ importante fare una distinzione traudire (percepire rumori che filtriamo e lasciamo sullo sfondo della coscienza), ascoltare (portare piena attenzione a quello che qualcuno ci sta dicendo, senza giudicarne immediatamente il contenuto e senza lasciar emergere emozioni) e obbedire (fare senz’altro quello che ci viene detto)
– Destinare un tempo specifico. Viene suggerito al cliente di dedicare un tempo specifico per ascoltare attentamente le voci, su base giornaliera. E’ utile anche porre domande aperte e neutre alle voci. Se le voci si fanno sentire al di fuori del tempo stabilito, vengono reindirizzate a quel momento: ad esempio: “Voglio ascoltarti, ma se vuoi che lo faccia, devi tornare alle nove questa sera”. Il motto è:”Le voci vogliono essere ascoltate” e per molti pazienti questa è una sorpresa. Spesso le voci cambiano il loro contenuto e le persone possono sviluppare una relazione diversa con esse. (cfr. Korrelboom, 1989; Van der Werf, Hermans & Van Ree, 1989).
– Negoziare. Può essere necessario negoziare con le voci. Ad esempio, quando le voci danno istruzioni che la persona vuole seguire, ma non nell’esatto momento in cui la voce lo chiede. Talvolta questo richiede coraggio.
– Registrare. Registrare ciò che le voci dicono e come la persona reagisce aumenterà il controllo. Tenere un diario delle voci è un metodo valido per ridurre l’evitamento cognitivo, cosa che spesso tali pazienti fanno – come anche i pazienti fobici. Una persona che udiva le voci, dopo aver praticato questo metodo, fu estremamente sorpresa nel notare che esse diventavano silenziose quando lui si apriva a loro, mentre nel passato gli parlavano tutto il giorno (cf. Korrelboom, 1989).
– Dialogo. E’ possibile iniziare un dialogo con le proprie voci. Se i pazienti lo stanno già facendo, il counselor potrebbe suggerire di fare domande diverse o di rispondere diversamente, creando così una situazione nuova per sé stessi e per le voci. Molto spesso le voci danno istruzioni auto-distruttive; è quindi possibile parlarne, ad esempio discutere chi è realmente al comando.
– Farmaci. Potrebbe essere di aiuto un farmaco antipsicotico, ma non dovrebbe essere prescritto automaticamente. Questo tipo di farmaco può aiutare a ridurre l’ansietà, ma raramente fa sparire le voci. Anche gli antidepressivi possono aiutare ad influenzare il modo come le voci vengono gestite. In generale in ogni caso, un trattamento farmacologico dovrebbe essere basato su un’attenta anamnesi, anche in relazione ai farmaci precedentemente usati e a quali effetti erano stati percepiti, e in particolare con attenzione ai bisogni e alla volontà dei pazienti, come risultato della loro precedente esperienza.
In breve si può dire che le tecniche a breve termine sono finalizzate ad aumentare le capacità della persona ad esercitare un controllo sulle voci.
Tecniche sul medio periodo
– Terapia cognitiva. La terapia cognitiva è un metodo di provata validità per le persone che sentono le voci e sono bloccate in convinzioni persistenti. Attualmente sono state pubblicate tre meta-analisi che ne descrivono gli effetti positivi: quella della Cochrane Library contiene cinque studi (Cormac, Jones, and Campbell, 2002), quella di Pilling et al. (2002) ne contiene otto, e la più recente, del National Institute of Clinical Excellence in Great Britain, contiene tredici studi (NICE, 2002). La terapia cognitiva, il più delle volte, cercherà una spiegazione razionale per come le voci hanno cominciato ad esistere (Kingdon & Turkington, 1994). In genere si tratta di un’interazione tra la vulnerabilità e circostanze di vita particolarmente stressanti. Successivamente la terapia si indirizzerà alle idee che il paziente ha sulle voci e, insieme, terapista e paziente rifletteranno sulla difendibilità di queste supposizioni e le confronteranno (empirismo collaborativo; Chadwick & Birchwood, 1994) in modo da tentare di mettere in dubbio le convinzioni del paziente. Attraverso esperimenti il paziente potrà poi verificare se le sue idee debbono essere modificate oppure no. Questo può avere effetti molto ampi sull’esperienza dell’udire le voci; rimandiamo a Corstens en Hofman (1997) per l’esauriente descrizione di un caso .
– Gruppi di auto-aiuto. I gruppi di auto-aiuto possono essere di grande importanza per queste persone; l’obiettivo in questo caso è il potenziamento e la riduzione delle emozioni di disagio o vergogna: confrontare le esperienze può aiutare la persona a cambiare l’immagine di sé (Pennings & Romme, 1997).
– Allenamento alle abilità sociali. Molte persone che sentono le voci hanno difficoltà nel ridurre il potere delle voci, e possono trarre beneficio dall’affermazione: “Tratta le voci esattamente come tratteresti i tuoi conoscenti”.
Tecniche a lungo termine
Le tecniche a lungo termine si focalizzano non tanto sulle voci in sé, quanto sulle circostanze presenti e sui problemi soggiacenti.
– Riabilitazione. La riabilitazione è un processo lungo. E’ indispensabile portare attenzione a un programma giornaliero, al lavoro, all’intimità, alla rete sociale e ai problemi esistenziali; è qualcosa di cui ogni essere umano ha bisogno.
– Guarire un trauma. Spesso alla base del disturbo di udire le voci vi sono eventi della vita particolarmente minacciosi. Se è così, la gestione del trauma deve essere parte della terapia. Il paziente può essere aiutato da un maggiore insight interiore, dal poter afferrare il proprio mondo emozionale. Spesso a queste persone viene negata la psicoterapia, basandosi su assunti spesso non giustificati (potrebbe causare psicosi; paura delle voci) mentr’invece anche questo gruppo di pazienti potrebbe trarre beneficio da un tale tipo di terapia (cf. Martindale et al., 2000).
Trattare le persone che odono le voci è un processo che richiede una mente aperta, perseveranza e una buona dose di creatività. Le tecniche sono un mezzo per aiutare questo processo. Tra le tecniche a lungo termine, il Voice Dialogue può essere un metodo da utilizzare per aprire una breccia negli schemi rigidi che tengono imprigionati questi pazienti.
Il Voice Dialogue
La tecnica del Voice Dialogue è stata sviluppata da Hal e Sidra Stone (Stone & Stone, 1993). Il nome di questa tecnica o meglio, metodo, è legato alle voci interiori che si presume abitino dentro di noi. La teoria degli Stone presuppone che la personalità umana non sia una singola entità, ma che consista di varie sub-personalità, ognuna della quali si manifesta nel modo che le è proprio. Esse si attivano come risultato delle esperienze della persona e costituiscono un sistema di sé interiori primari e rinnegati. I sé primari si manifesteranno più chiaramente, perché hanno avuto più successo degli altri nell’ambiente in cui la persona è vissuta. Un esempio di sub-personalità primaria è il “Critico interiore”: questa parte è particolarmente critica verso tutto ciò che la persona intraprende, e controlla l’adattamento agli standard dell’ambiente. Le parti rinnegate giocano un ruolo sullo sfondo, e possono essere causa di conflitti interiori con i sé primari. Un esempio di un sé rinnegato può essere il “Bambino interiore”, la parte che manifesta i desideri e i bisogni di un bambino. La tecnica del Voice Dialogue, perciò, assomiglia agli schemi disadattivi di Young nella terapia cognitiva (cf. ad esempio Corstens & Arntz, 2000).
Nel Voice Dialogue, il terapista (definito “facilitatore”) cerca di creare un contatto con le sub-personalità. Lo scopo non è di interferire attivamente con il loro comportamento, quanto piuttosto di attivare un processo durante il quale queste parti possono farsi avanti ed esprimersi completamente. Le parti che si presentano non sono in alcun modo giudicate, ma vengono “intervistate” sulle loro caratteristiche e il loro ruolo, in modo molto rispettoso. Lo sforzo è quello di stabilire un contatto con i sé primari e anche con quelli rinnegati, con lo scopo ultimo di aiutare il paziente a sviluppare un Ego Consapevole, che gli permetta di creare distanza tra sé stesso e le sue sub-personalità e di sviluppare un maggiore controllo. Maggiori informazioni si possono trovare in Stone & Stone (1993) e Stamboliev (1993).
Il metodo del Voice Dialogue, che ad ora è usato solo con pochi pazienti psichiatrici, ci ha dato l’idea di parlare con le voci delle persone che le sentono. Perciò, assieme a Robert Stamboliev, abbiamo iniziato ad utilizzare questo metodo con alcuni dei nostri pazienti e, con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che era possibile attuare cambiamenti durevoli anche con poche sessioni. Inoltre i pazienti erano molto soddisfatti di tale metodo.
Come usare il Voice Dialogue con le persone che sentono le voci.
Basi per il trattamento
Il metodo del Voice Dialogue viene utilizzato solo con il consenso del paziente. Per molti pazienti è naturale parlare con le proprie voci, ma gli può sembrare strano che siano altri a farlo, ed è quindi importante fornire loro adeguate informazioni. Nella maggior parte dei casi il paziente si sente preso sul serio, perché l’approccio del terapista alle voci avviene come se esse fossero reali. Il paziente può interrompere in qualsiasi momento, se lo vuole, quindi controlla il processo, e il terapista gestisce la chiusura della seduta nel modo appropriato.
Non è consigliabile utilizzare questo metodo con persone che sono molto confuse, perché può peggiorare lo stato di confusione; né è da usarsi con persone che soffrono di psicosi acuta e che sono ancora molto spaventate dalle voci. In tali casi è importante creare una sensazione di sicurezza. Tuttavia non vi sono controindicazioni nel caso di diagnosi di schizofrenia: molti di questi pazienti sono infatti capaci di fare una distinzione tra le voci e sé stessi, quindi di stabilire un dialogo e possono trarre giovamento da una migliore relazione con le loro voci.
Fare un inventario
Dopo la prima introduzione e la valutazione del tipo di aiuto necessario, il terapista condurrà la cosiddetta “intervista con le voci” (Romme & Escher, 1999), che consiste in una lista di domande legate ai diversi aspetti dell’udire le voci. Ad esempio quanti voci sono presenti, che cosa dicono, chi rappresentano, quando si sono attivate e in quali circostanze. Chiederà inoltre come la persona interpreta la voci, come possono essere richiamate e come le gestisce.
Accade spesso che le voci proibiscano di dire alcunché su di loro, o che la persona si aspetti una reazione talmente negativa da essere spaventata all’idea di parlarne (cf. Van der Werf et al., 1989), perciò molti pazienti sono sollevati al pensiero di poter parlare delle voci su un lungo periodo di tempo. Al tempo stesso, durante il colloquio il terapista può dare informazioni rassicuranti e ottimistiche su questo fenomeno, ad esempio raccontando esperienze di altri, in modo da creare un’atmosfera di speranza basata sul fatto che molti pazienti sono riusciti a gestire le voci.
Spesso, le persone chiedono aiuto perché vogliono che le voci spariscano. L’intervistatore sottolineerà che si tratta di un obiettivo non realistico, anche se talvolta può avvenire, e che lo scopo è di ridurre il disagio che le voci stanno causando.
L’inventario viene completato da una relazione scritta nella quale l’intervistatore mostrerà come le esperienze di vita, i conflitti e le voci sono collegati l’uno all’altra. Sulla base di questo rapporto può avere inizio l’intervento terapeutico. Maggiori informazioni si possono trovare in Romme & Escher (1999).
Un’altra opzione è quella di dare alla persona il manuale di Coleman e Smith (1997), nel quale potrà trovare da sola risposte sulle voci; il manuale è pieno di suggerimenti su come le persone possono cambiare il modo con cui gestiscono le voci.
Stabilire il contatto con una voce
Il primo passo nel metodo è di chiedere alla persona come le voci si sentirebbero all’idea di parlare con il terapista, spiegando in modo dettagliato che non c’è l’intenzione di reprimere le voci o di mandarle via, ma che lo scopo è quello di conoscerle meglio. Ovviamente, esse devono dare il loro consenso. Questa spiegazione può ridurre la resistenza iniziale. La volontà di cooperare può essere rinforzata anche con il racconto di esperienze positive ottenute con quel metodo. E’ insomma importante rendere sia la persona che le sue voci curiose di questo processo.
Se necessario, la persona può riferire la domanda del terapista alla voce e successivamente convogliare le risposte della voce (cf. Korrelboom, 1989; Van der Werf et al., 1993); ovviamente con questo metodo indiretto vi può essere un’interferenza da parte della persona. Tuttavia alcuni pazienti hanno bisogno di questo tipo di controllo. Altri invece si identificano facilmente con la voce e creano un contatto diretto, come in una seduta di Voice Dialogue “normale”. In questi casi, la voce parlerà direttamente con il terapista.
Generalmente il terapista chiede alla voce se vuole spostarsi in un’altra posizione nella stanza, rendendo più facile sia al paziente che al facilitatore conoscere chi sta parlando. Il terapista, inoltre, ricorderà che il paziente resta sempre nel controllo e che, alla fine, ritorneranno alla posizione originale, e che da questa posizione verrà poi fatto il riassunto della seduta e la sua conclusione. Non è consigliabile lasciare la persona in uno stato dissociato.
Alcune persone non ricordano le conversazioni con le voci; altre ricordano quasi tutto piuttosto bene. Quando la persona non ricorda, il terapista può riferire che cosa la voce ha detto; oppure si può registrare o videoregistrare la conversazione.
Domande alle voci.
Nella pratica, il terapista fa domande aperte, rivolte a chiarire le situazioni; è fondamentale che il facilitatore non entri in discussione con la voce.
Esempi di domande:
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Hai un nome?
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Quanti anni hai?
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Lui/lei ti conosce?
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Quando sei comparsa per la prima volta nella sua vita?
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Che cosa ha fatto sì che tu arrivassi?
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Come era la situazione a quel tempo?
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Quali sono le cose di cui tu ti prendi cura?
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Qual è il tuo scopo?
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Che cosa potrebbe succedere se tu non ci fossi?
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Come ti senti trattata da lui/lei?
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Quali difficoltà ci sono nella vostra relazione?
Il terapista conduce la conversazione in modo che la voce parli del paziente come se lui o lei fosse un’altra persona. In tal modo si crea un dialogo in cui la voce commenterà il suo ruolo nella vita del paziente, dove possono emergere le vulnerabilità del paziente e le sottostanti emozioni, chiarendo così l’origine di certi fallimenti della persona, ma anche che tipo di protezione la voce gli sta offrendo.
Una voce di Wil, ad esempio (vedi la descrizione dei casi) gli dice costantemente che dovrebbe uccidersi. Parlando con la voce diventa chiaro che in realtà Wil dovrebbe essere più resistente verso le persone del suo ambiente e che, resistendo agli attacchi della voce, diventerebbe capace anche di mettere confini alle persone che vogliono umiliarlo. In questo modo si evidenzia la “logica emotiva” della voce, e il comportamento della voce può essere trasformato da minaccioso a protettivo. In questo esempio la voce divenne fonte di insegnamento, là dove prima se ne avvertiva solo la natura minacciosa. Si tratta di una ristrutturazione cognitiva, che reinquadra positivamente il messaggio della voce.
Attraverso la descrizione di due casi, illustreremo come il metodo del Voice Dialogue può aprire una breccia in uno schema rigido e antico che mantiene prigioniera la persona che sente le voci.
Casi
Karen e i suoi protettori frustrati
Karen ha trent’anni, è sposata e ha cominciato a sentire le voci da quando aveva quattro anni. All’epoca, le voce la sostenevano e le parlavano in modo positivo. Quando, all’età di ventun anni, cominciarono a diventare negative e distruttive, Karen consultò un terapista (il primo autore di questo articolo). Le voci rifiutarono di recedere sullo sfondo, nonostante quattro anni di ospedalizzazione, prolungate separazioni a causa del suo comportamento auto-distruttivo e elevati dosaggi di neurolettici. A un certo momento, tuttavia, la donna decise di non ferirsi più e si mostrò capace di vivere una relazione e di vivere per conto proprio.
Tuttavia la sua vita era ancora in gran parte dominata dalle voci e dalle continue necessarie negoziazioni con esse. La diagnosi fatta fu di disturbo di personalità borderline. Con la tecnica dell’inventario, si evidenziarono quattro voci maschili. Karen fu d’accordo che il terapista parlasse direttamente con le voci. Nella prima seduta, le quattro voci si presentarono l’una dopo l’altra, dissero i loro nomi, che Karen non conosceva, e spiegarono perché spingevano Karen ad uccidersi: all’età di ventun anni la ragazza era entrata in una setta religiosa, i cui seguaci avevano definito le sue voci “strumenti del diavolo”. Prima, quando era bambina e adolescente, Karen aveva accettato le voci e aveva permesso loro di proteggerla in un ambiente in cui era trascurata e abusata. Ogni singola voce affermò che era arrabbiata perché aveva perduto la sua precedente influenza sulla donna: dall’esatto momento in cui lei aveva cominciato a rigettarle, le voci le si erano rivoltate contro. Ma non vedevano l’ora di tornare ad avere un significato nella sua vita, di sostenerla e proteggerla.
Un mese dopo, nella seconda seduta, era evidente che due voci si erano ritirate sullo sfondo; ci fu quindi un colloquio con le due voci restanti, e ancora una volta fu chiaro che volevano esercitare una maggiore influenza. Dopo la quarta seduta, Karen disse che aveva imparato abbastanza, che si sentiva in grado di gestire le voci da sola. Tenne una registrazione delle sue conversazioni con le voci, che non permise al terapista di leggere, e negoziò con le due voci ogni giorno, ad un’ora prefissata. Karen lavorò con impegno per gestire le voci, ricevendo sostegno dal suo counselor, che audacemente parlò con lei delle voci. Così facendo, la donna trovò un nuovo equilibrio tra sé stessa e le voci.
Poi Karen rimase incinta; le medicine furono ridotte drasticamente senza alcun effetto negativo sulle voci o sul suo livello di ansietà. Nacque un maschietto; dopo il parto la donna era in grado di vivere normalmente. Consultò ancora una volta il suo terapista per un sostegno riguardo alle cose pratiche che aveva intrapreso. Pochi mesi dopo gli inviò una lettera, in cui diceva che le voci erano sparite dopo che aveva vissuto un’esperienza spirituale. Più recentemente, circa due anni fa, Karen scrisse che stava usando un basso dosaggio di neurolettici e che udiva una voce positiva che la sosteneva nelle scelte; l’influenza negativa delle voci era tuttora assente.
Commento
Karen era terrorizzata dalle sue voci. Essa fu in grado di esperimentare come le voci cambiavano il loro comportamento, diventando meno negative, dopo che il terapista le aveva incontrate a mente aperta e senza alcuna paura. Quando Karen riuscì ad utilizzare lo stesso modo neutro di parlare alle voci, il contenuto dei messaggi cambiò, rendendole più facile il gestirle e facendole comprendere perché questi aspetti rinnegati cercavano di asserire sé stessi. Divenne infine più evidente la natura protettiva delle voci.
Wil e il suo “tutore” interiore
Wil aveva ventritré anni, era senza lavoro e viveva solo. Ci fu mandato perché stava sentendo una voce. Gli era stato diagnosticato un disturbo ossessivo-compulsivo che era stato curato con discreto successo. Nel passato, Wil era stato ospedalizzato diverse volte per psicosi. Il trattamento clinico in una comunità psicoterapeutica era stato interrotto perché era stato considerato troppo passivo. Un guaritore non ortodosso era riuscito a far sì che alcune voci sparissero, ma una era rimasta. Durante il nostro incontro fu chiaro che durante la notte egli soffriva di fughe dissociative. Wil era terrorizzato dalla voce che udiva e evitava ogni tipo di situazione in cui avrebbe potuto mettersi in pericolo a causa degli ordini della voce.
La storia di Wil mostra che si era impegnato a scuola in modo massacrante per poter essere all’altezza delle aspettative dei genitori, che erano molti critici verso di lui. Non era mai stato abusato, né sessualmente né in altri modi. Una settimana prima di ricevere il contratto permanente per il lavoro dei suoi sogni (che tuttavia non era il lavoro che i genitori volevano per lui) cominciò ad udire le voci, divenne psicotico (la sua ansietà e paranoia crebbero gravemente) e dovette essere ospedalizzato. Le sue esperienze psichiatriche furono tali che egli chiese al suo terapista di non ospedalizzarlo mai più. Wil usa molte medicine che, secondo lui, hanno un effetto benefico sul suo stato d’animo e sull’ansietà, ma che tuttavia non lo aiutano contro la voce.
Anche con Wil furono fatti diversi colloqui per parlare con le voci. Wil udiva una voce che lo criticava severamente e che assomigliava, nei contenuti, a quella di uno dei suoi genitori. La voce lo spingeva ad uccidersi gettandosi davanti a un treno, e Wil la sentiva praticamente tutto il giorno. Quando il ragazzo stabilì un tempo per ascoltare la voce senza pregiudizi, essa rimase silenziosa e questa fu per lui un’esperienza di sollievo e controllo. Quando il terapista chiese a Wil se poteva parlare direttamente con la voce, quest’ultima acconsentì. Allora il terapista chiese al ragazzo di parlare dalla posizione della voce, sedendo su un’altra sedia. La voce si sedette e annunciò a voce alta che voleva Wil morto. Il terapista stabilì un contatto più specifico con la voce, che disse di considerare Wil un debole, che permetteva a chiunque di trattarlo male, qualcuno insomma senza spina dorsale. La voce pensava che Wil dovesse pensare a sé stesso e non dire sempre di sì a tutto e dichiarò che il suo scopo era che Wil imparasse a sostenersi con successo, e si chiedeva se il ragazzo avrebbe potuto raggiungere questo scopo con il suo aiuto. Allora il terapista definì questa voce come il “tutore”, cosa della quale la voce fu molto fiera. Quando ritornò a sedersi sulla sua sedia solita, Wil disse che non ricordava nulla di ciò che era stato detto, quindi il terapista riassunse a grandi linee il contenuto della conversazione, che egli ascoltò con genuino stupore. Il terapista suggerì a Wil di creare un contatto ogni giorno con la voce, e gli disse che il tenore della conversazione era che la voce voleva tentare di sostenerlo.
Vi furono altri colloqui, ad intervalli regolari, in cui divenne chiaro che la voce era felice dei risultati raggiunti e specialmente del fatto che ora Wil la accettava pienamente. Durante il trattamento divenne evidente che Wil udiva anche altre voci che, chiaramente, rappresentavano diversi aspetti della sua vita. Per la maggior parte riguardavano situazioni in cui Wil si sentiva vulnerabile e le voci avevano “adottato” alcune emozioni, in genere la rabbia. Il terapista parlò con alcune di esse, e Wil stesso parlava con loro tutti i giorni. Nel frattempo Wil viveva momenti alti e bassi; ci fu un periodo in cui le fughe dissociative avvenivano tutte le notti, ma i controlli neurologici e l’EEG non mostrarono alcun difetto. A un certo momento le dissociazioni notturne sparirono; l’ossessione di controllo si fece più grave, ma poi anch’essa sparì gradualmente.
La voce del “tutore” è ancora positiva e di sostegno; Wil è ancora disturbato da tre voci di cui è spaventato, tuttavia il suo controllo su di esse sta crescendo. Egli sta di nuovo cercando lavoro, fa ogni tipo di lavori saltuari e ha recuperato la relazione con i suoi genitori. Le idee suicide si sono ritirate sullo sfondo e ora Wil è in grado di creare e mantenere relazioni. Vi è ancora un cammino da percorrere, ma egli è sempre più in grado di controllare le sue esperienze.
Commento
Wil ha sempre fortemente represso la sua aggressività, e ha vissuto imponendosi performances altissime, cercando di ottenere il massimo, per ricevere l’affetto dei suoi genitori. I suoi sé rinnegati mostrano modalità aggressive, e la loro natura è dissociativa. Con l’aiuto del Voice Dialogue questi sé aggressivi sono stati trasformati in un sistema protettivo e di sostegno. Un ulteriore passo per Wil potrebbe essere quello di lavorare sul lutto che ha sperimentato quando, bambino, aveva sentito che i suoi bisogni non erano apprezzati dai genitori e dall’ambiente; tuttavia gli è ancora difficile riconoscerlo.
Considerazioni
In Directive Therapy, part three (Directieve therapie, deel drie, Van der Velden, 1989), due capitoli sono dedicati a come si può apprendere a gestire le voci (Korrelboom, 1989; Van der Werf et al., 1989). E’ interessante confrontare il metodo del Voice Dialogue che abbiamo descritto con l’approccio di questi autori.
La strategia terapeutico-direttiva che Van der Werf et al. illustrano nel loro capitolo è in qualche misura simile al nostro metodo. La loro strategia prevede sei passi:
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formulare un obiettivo limitato;
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riconoscere la sofferenza portata dalle voci e che il paziente non può discutere (o gli è proibito di farlo);
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normalizzare l’esperienza e offrire sostegno;
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rendere le voci più concrete, offrirsi di collaborare nella lotta alle voci;
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dare istruzioni su come creare contatto con le voci anche per conto proprio, tenere un diario di questi colloqui, fare domande alle voci, discutere con loro durante le sedute con il terapista;
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esaminare il significato di quello che le voci stanno dicendo e la connessione con la storia di vita del paziente.
Un punto di accordo tra questo metodo e il nostro è che il terapista si unisce all’esperienza che fa paura, riconosce cioè che le voci sono una realtà per il paziente e sostiene la persona nel creare un dialogo con esse, incoraggiandolo ad ascoltarle, a fare domande, a comportarsi in modo diverso durante la comunicazione. Unacaratteristica della loro strategia, così come della nostra, è quella di offrire speranza e normalizzare l’esperienza; allo stesso modo, entrambe hanno lo scopo di scoprire la connessione tra le affermazioni delle voci e la storia di vita del paziente. In tal modo ciò che le voci dicono acquista significato, permettendo alla persona di ristabilire la padronanza sulle sue voci.
La differenza tra il metodo descritto da Van der Werf e il nostro è che nel loro il terapista si coinvolge in una lottacontro le voci. Anche Korrelboom descrive in modo affascinante come aiuta il paziente a conquistare la “voce del diavolo”, utilizzando un misto di istruzioni paradossali (non comportarti da folle!) e congruenti (combatti e sii sicuro di vincere). Entrambi questi terapisti creano un contatto indiretto con le voci, cioè aiutano il paziente a gestirne l’influenza. E’ la persona che sente le voci che parla con esse. Questo aiuta a costruire una difesa, perché congiuntamente aumentano la comprensione di come le voci operano. Entrambi quindi aiutano il paziente a difendersi contro le voci che, anche nell’esperienza dei terapisti, sono aggressive.
Il Voice Dialogue può essere visto come un reframing positivo dell’udire le voci. Il punto di partenza è la convinzione che le voci abbiano significato nella vita della persona. All’inizio, il paziente le considera nemiche ed è intrappolato nelle sue stesse paure. Il terapista accetta la realtà psicologica delle voci e, stabilendo un dialogo con esse, fornisce un modello di comportamento alternativo. In questo modo, il conflitto spaventoso può essere negoziato, si crea una situazione in cui entrambe le parti guadagnano qualcosa: le voci diventano alleate anziché nemiche.
Nelle strategie proposte da Van der Werf e Korrelboom, che mirano a lottare insieme contro le voci, il risultato è incerto: se il paziente sente che non è in grado di sostenere il confronto con le voci, continuerà a “perdere“; può allora essere intrappolato in una prolungata e sfinente battaglia contro le voci, e la creatività richiesta al terapista per continuare la lotta sarà ridotta. Ogni volta che due parti stanno lottando, raramente un mediatore suggerisce che una parte dovrebbe lottare ancora più strenuamente: egli cercherà piuttosto di cambiare il modo come i due nemici si vedono, in modo da creare delle possibilità di negoziazione.
Conclusioni
Il Voice Dialogue è stato favorevolmente accolto come un metodo aggiuntivo al nostro arsenale di tecniche usate con le persone che sentono le voci. La nostra conclusione preliminare è che questi pazienti si sentono presi sul serio e questo li aiuta a gestire le loro voci in modo diverso e più costruttivo. Questo metodo non si preoccupa dell’interpretazione ma attiva cambiamenti immediati nei rigidi sistemi che mantengono prigionieri tali pazienti.
Questo articolo “L’uso del Voice Dialogue con le persone che sentono le voci”, di Dirk Corstens e Marius Romme, è tratto dalla rivista: ‘Directieve therapie’ (Olanda), 24 (Marzo 2004), pp. 54 – 68. Esso presenta una breve panoramica delle tecniche utilizzate per trattare le allucinazioni uditive, specialmente con le persone che sentono le voci.
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Copyright 2005 © by Bohn Stafleu van Loghum, Houten
Translation from the Dutch copyright © 2006 by Jeroen Koolbergen, Amsterdam
Traduzione dall’inglese – copyright 2006 by Franca Errani Civita, Lugo. Se utilizzi l ‘articolo italiano, in tutto o in parte, grazie di citarne la fonte
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