In quali modi, con quali parole possiamo manifestare la nostra spiritualità?
Ormai era sera e anche gli ultimi fedeli stavano lasciando il tempio. Il profumo degli incensi e delle altre piante odorose aleggiava ancora nell’aria, insieme ai frammenti di musiche e preghiere.
Era il momento più importante dell’anno. Il culmine del ciclo. Le preghiere più importanti, gli inni più sacri. Keepha riprese a spazzare, a pulire, come ogni sera. Era il suo lavoro da una vita intera. Pulire, tenere in ordine, svolgere le piccole commissioni che a volte i sacerdoti gli chiedevano.
In questo momento dell’anno, accanto alle preghiere tradizionali si creavano nuovi canti, orazioni e inni. Era il dono per il nuovo ciclo, era la festa della fede che si rinnova e crea nuove parole accanto alle antiche, così come sugli alberi nuovi rami e nuove foglie vanno ad accrescerne la dimensione e la bellezza.
Keepha non sapeva leggere né scrivere; amava ascoltare i suoni delle antiche preghiere e di quelle nuove, che avviavano i loro primi passi proprio in quei giorni, come bambinetti innocenti.
Mentre versava l’olio nelle lampade, Keepha cercava le parole che avrebbe voluto dedicare a Dio. Parole tutte sue, una preghiera nuova e luccicante come una gemma di primavera. Sarebbe stato un dono magnifico, un’offerta piccola e segreta, da gustare poi per ogni altro giorno della sua vita. Ma le parole non gli venivano. Keepha si sentiva ignorante, piccolo e inutile.
Sospirò. Stava arrivando alla fine dell’ultima navata. Si mise a parlare a bassa voce: “Dio, guarda, io ci sto provando, vorrei tanto dedicarti una preghiera nuova tutta mia e tutta per te. Ma lo vedi, non so leggere, non so scrivere, non so null’altro che spazzare e pulire e riempire le ampolle”.
Ormai solo i suoi passi risuonavano sotto le alte volte del tempio. Ne conosceva ogni angolo, ogni cosa bella e ogni imperfezione; aveva spolverato, riparato, lucidato, levigato ogni giorno fin da quando, poco più che bambino, era stato accolto al tempio dopo che i suoi genitori erano morti.
“Sai, Dio, cosa ho pensato? L’unica cosa che conosco a memoria da sempre è l’alfabeto. Lo imparai da bambino da mio nonno e quando lo dico mi ricordo di lui, che era una buona persona, forse te lo ricordi anche Tu, veniva spesso e ti portava i fichi dentro a un cestino intrecciato da lui…. Così, mio Dio, adesso io ti recito l’alfabeto, lentamente… e tu potrai creare tutte la parole che desideri, quelle più belle, e in questo modo avrai la mia preghiera, la più bella che posso dedicarti. Eh, ti va, mio Dio?”
Così Keepha recitò molto lentamente l’alfabeto, dritto al centro della navata centrale, dritto come dev’essere nella tradizione, in modo che Dio ti possa guardare negli occhi, che sono la finestra dell’anima. Ogni lettera che pronunciava era un petalo, un frullo d’ali, un piccolo sospiro. Ci mise un sacco di tempo, Keepha, a dire quell’alfabeto.
Poi fece un inchino e si girò verso l’uscita. Quando fu sulla soglia, sentì sussurrare qualcuno al suo orecchio. “Keepha, questa è la preghiera più bella che ho mai ricevuto”.
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Franca Errani
Immagine Antonia Felipe, Unsplash.com
Arrivare dritto al cuore delle persone non è facile…. ma questo è un tuo dono
Grazie Franca
Cara Marina! Grazie per il tuo commento – che giustamente… mi arriva al cuore!