Sentire le Voci alla luce del Dialogo – Luisa Zoni

da | Mar 1, 2015 | Blog | 0 commenti

Il Voice-Dialogue si affianca al “Processo di Affrontamento delle Voci” per offrire agli Uditori di Voci e ai loro famigliari  il modello teorico e gli strumenti per un approccio efficace: un ponte verso una miglior qualità di vita.

Nel corso di quest’anno Franca Errani ha coinvolto sia i counselor già formati ed operanti, sia gli studenti della Scuola di Counseling ad indirizzo Voice Dialogue nella esplorazione di un mondo di esperienze vive, forti e particolari quali quello degli “Uditori di Voci”. Questo è avvenuto grazie al felice incontro con Cristina Contini, (dell’Associazione “Noi e le Voci”; Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento Uditori Italiano), creatrice del Metodo di Affrontamento delle Voci che, attraverso la via dell’esperienza pratica (Cristina è lei stessa Uditrice di Voci), ha sviluppato tecniche di colloquio molto efficaci e veloci per imparare a “disciplinare” le Voci).

 

Si tratta di persone che, nel corso della loro vita, cominciano a sperimentare la percezione uditiva di voci che si rivolgono loro. Quando, come e perché ciò avvenga non è ancora noto. Si sa che è abbastanza frequente e diffuso nell’infanzia e tende a sparire con l’adolescenza; alcuni adulti, in percentuali variabili tra 2 e 4 % delle popolazioni esaminate, mantengono o iniziano a presentare percezioni uditive (± accompagnate da altre visive e/o somatiche); alcune malattie psichiatriche hanno come sintomo d’accompagnamento la percezione di voci.

È invece ben chiaro che tale fenomeno è vissuto, in molti dei casi, con una intensità emotiva molto forte, con difficoltà ad adattarsi a questa nuova situazione e con una sequela di comportamenti più o meno disturbati o adattati.

Per chi, come me, lavora nell’ambito della sanità il discorso è intrigante: spesso mi è capitato di confrontarmi con utenti seguiti dai servizi di Salute Mentale che “sentono” o “hanno sentito” delle voci. Ma mi sono capitati anche soggetti che accennavano (con timore di non essere capiti) a situazioni ripetitive in cui sembrava loro di sentire delle voci e che nulla avevano del malato di mente. Anche una mia amica mi ha riportato, del tutto casualmente, un vissuto estremamente problematico di suo zio, che da un paio di mesi – dopo un banale intervento chirurgico – ha iniziato a sentire voci con una intensità tale da farlo stare molto male. Fino ad ora non ho approfondito molto la cosa o, se capitava, la inquadravo nell’ottica di una maggior sensibilità alla percezione dei vari Sé Primari e Rinnegati.

Da quando ho assistito alla presentazione di Cristina Contini ho cominciato ad interrogare più spesso e con maggior attenzione i miei utenti, ricavandone diverse sorprese. Nel giro di pochi giorni, infatti, ho ricevuto alcune testimonianze, sia di soggetti con diagnosi psichiatrica di lunga data, sia – cosa molto più sorprendente – di utenti senza particolari problemi psichiatrici. Questi ultimi mi dicevano di convivere da tempo con le loro “voci”, dopo una fase iniziale di disagio (se negative) o di sorpresa (se apparentemente positive o neutre). Non so quanto effettivamente potessero essere definiti “veri uditori” (penso che occorra definire alcuni parametri di base per identificare un soggetto come uditore, che un minimo di diagnosi del fenomeno vada fatta utilizzando dei criteri condivisi, altrimenti si rimane nel regno dell’incertezza più totale che da poi adito ad etichette di patologia da un lato e di ciarlataneria dall’altro). Di sicuro occorrono tempo e tecnica per inquadrare il problema.

La cultura e la medicina tradizionale incasellano queste esperienze nell’ambito della psichiatria, della dissociazione psichica e del “diverso”. Se questo può essere vero in molti casi, in altri si aprono spiragli di dubbio su tale inquadramento semplicistico.

Alcuni individui, infatti, non manifestano altri sintomi di malattia mentale accanto alla percezione uditiva – e talora visiva – e, se riescono in qualche modo a convivere con tali percezioni, risultano piuttosto ben adattati al normale modo di vivere: hanno ben presente i limiti della realtà che li circonda; instaurano rapporti coerenti e proficui con i propri simili e con l’ambiente in cui vivono; svolgono le loro attività in maniera abbastanza o totalmente adeguata alle circostanze. Quando, invece, faticano a gestire il carico morale e fisiologico che il loro sentire provoca, possono svilupparsi quadri depressivi più o meno gravi e possono comparire reazioni a volte incomprensibili a chi sta loro accanto; anche se il fenomeno non è sempre identificabile con una vera malattia mentale è comunque caratterizzata da un profondo disagio e dalla progressiva percezione di non riuscire a sopravvivere con questo carico. Non sono rari i gesti autolesionistici o suicidiari. Questa situazione di difficoltà ad affrontare il problema, cioè l’aumento progressivo dell’ansia e del disagio, dell’incapacità di capire cosa sta accadendo, del dubbio di stare impazzendo, del non potersi confidare o – se lo si fa – del non essere capiti nelle proprie sensazioni e vissuti, della fatica a mantenere un sistema di vita regolare e tranquillo porta ad isolarsi, a sentirsi “diversi” e non “guaribili”. Il distacco dagli altri diventa sempre maggiore, i cambiamenti di carattere più pesanti, i rapporti con i familiari più problematici. Chi sta accanto a queste persone, a sua volta, non riesce a comprendere cosa accade al congiunto, si sente impotente e rifiutato e reagisce diventando a sua volta rifiutante. La solitudine e l’impotenza accompagnano, quindi, i vari attori di questa scena, entrambi vittime di qualcosa di incomprensibile.

Nei soggetti con patologia psichiatrica tale fenomeno uditivo può essere quello di esordio o di accompagnamento nel corso della malattia, ma è compresente con altri sintomi ben definiti e gravosi per la qualità di vita della persona e di chi gli sta accanto, per cui la percezione uditiva è solo una parte del quadro complessivo di malattia, anche se spesso è quello maggiormente riportato come disturbante dal malato. Le terapie farmacologiche possono a volte eliminare – accanto agli altri sintomi – anche le “voci”, pur se in diversi casi esse permangono, con intensità o caratteri diversi.

Tale effetto, di azzeramento o di attenuazione delle voci, non sembra altrettanto ottenibile negli “uditori” non patologici, che sono però ugualmente inquadrati come malati e come tali trattati.

In realtà non si tratta di suddividere gli “uditori” tra “sani” – in quanto hanno sviluppato tecniche di controllo della situazione oppure sentono solo voci positive – e “patologici” – che non riescono a gestire tali voci e/o ne sono atterriti. La gamma di possibilità è molto più ampia, in quanto le “voci” possono avere caratteristiche positive, di sostegno ed incitamento, oppure negative, di critica e svilimento ed essere anche contemporaneamente presente con caratteri opposti in uno stesso soggetto; l’individuo, d’altro canto, può avere modalità diverse di reazione, in rapporto con le sue caratteristiche cognitive e di abilità ad affrontare i problemi, oltre che con la presenza o meno di disturbi mentali di vario genere concomitanti. Possono quindi esserci interferenze molto variegate e si possono originare risposte diverse, dalla tranquilla convivenza con le voci (che entrano a far parte del proprio quotidiano e non ci si fa quasi più caso), alla buona capacità di gestione (si adottano comportamenti di controllo, quando opportuno), al cadere in preda all’ansia ed al panico (per la mancata comprensione di ciò che sta avvenendo) e poi alla depressione (per il senso di impotenza che emerge e prevarica), al non riuscire a ritrovare se stessi nell’affastellamento di pensieri e di suoni percepiti (che può far cadere in una manifestazione dissociativa o accompagnarla e che viene, comunque, come tale diagnosticata dagli psichiatri). Il rischio di passare, poi, da una situazione di benessere ad una patologica è alto, in relazione con la comparsa e la successiva incapacità di gestire il carico emotivo portato dalle voci negative (quelle che urlano o strepitano o offendono), se le voci emergono all’improvviso in chi prima non le aveva mai udite.

Il passaggio cruciale è rappresentato dalla comprensione che si può non essere in balia della confusione che le voci creano, ma che si può prestare ascolto a ciò che viene detto.

Un fatto importante è rappresentato dal chiaro desiderio, da parte di chi non si limita più a “sentire” le voci ma le “ascolta”, di non rinunciare a quelle “di sostegno”: sono quelle negative, critiche, arrabbiate, che si vuole far tacere o attenuare o comprendere; le altre sono gradite ed a volte gradevoli, possono spesso essere utili per il semplice fatto di rappresentare una sorta di “presenza”, oppure perché accompagnano o indirizzano le persone.

Ciò che è condiviso da tutti gli “uditori” è l’insieme dei disagi nei rapporti familiari e sociali, che si aggiunge ai segni e sintomi presentati e che rende problematico un sostegno efficace, quello in grado di andare al nocciolo dei sentimenti condivisi. Sono questi sentimenti ed affetti che fanno la differenza tra un intervento asettico, quale può essere quello dei servizi pubblici, ed un rapporto di “pancia” e di “cuore” che sostiene ed accompagna con l’accettazione e l’empatia.

Non esistono casistiche scientifiche in merito (e ciò rappresenta lo scoglio maggiore nel cercare di comprendere il fenomeno), sia per la naturale ritrosia di chi ne soffre (che non vuole automaticamente essere definito “malato psichiatrico” nel caso il fenomeno non sia eccessivo), sia per il limite classificatorio della nostra medicina (che vede il “sintomo” senza capirne la portata nell’economia vitale e di salute del soggetto e che lo incasella come da sempre ha fatto).

Le situazioni in cui il fenomeno compare possono essere molteplici: in seguito a violenze fisiche e sessuali, dopo lutti, in relazione con cambiamenti di vita forti (separazioni, problemi affettivi, nascite di fratelli, problemi lavorativi gravi, ecc.), successivamente ad anestesie per interventi chirurgici, durante o dopo gravidanze o aborti.

Alcune caratteristiche sono comuni: le “voci” non si ascoltano, bensì si sentono; le “voci” non fanno male, ma fanno paura; le “voci” fanno ammalare o arrivano quando si è già malati, ma chi sta accanto si ammala anche lui (partner, familiari), perché la relazione si incrina.

Il primo passo per cercare di migliorare la qualità di vita degli uditori è quello di passare da una percezione uditiva indistinta ad un ascolto progressivamente sempre più mirato ed approfondito: imparare inizialmente a riconoscere o a dare un nome alle varie voci udite, per poi avvicinarsi al tipo ed al contenuto dei messaggi inviati, consente di passare da un ruolo passivo ad uno attivo ed in qualche modo selettivo. In tale maniera si ottiene una sorta di filtrazione del rumore di fondo, che consente da un lato di ridurre l’entità del fenomeno e, dall’altra, di riceverne informazioni che consentano una elaborazione costruttiva. Il cammino rimane lungo, ma la consapevolezza di non essere più vittime passive del fenomeno consente di aprire un varco che può poi favorire un certo adattamento relazionale. Alcuni individui riescono a fare da soli questo lavoro di filtrazione e di diversa modalità di ascolto; per altri ciò deve essere agevolato dall’esterno, ma sembra mancare una sensibilità diffusa in tale direzione da parte del mondo sanitario (quello a cui, il più delle volte, gli uditori si rivolgono per cercare aiuto, quando decidono di farlo; oppure quello che li intercetta quando il problema fa parte di una quadro dissociativo).

Il Dialogo delle Voci, insieme al Metodo di Affrontamento delle Voci di Cristina Contini,  può rappresentare un buon modello di lavoro con queste persone, in quanto la voce udita potrebbe rivelarsi, una volta depurata da dati spuri, un Sé del soggetto; se così non fosse, però, il trattarla come un Sé consentirebbe in ogni caso di farla emergere ad un livello di consapevolezza assieme a tutto il suo messaggio. In questo modo si possono spalancare le porte ad una sorta di integrazione di quanto sta accadendo nel vissuto dell’individuo.

Le tecniche di lavoro offerte da un lato e, soprattutto, il modello teorico del Voice Dialogue dall’altro, possono fungere da base per costruire modalità di approccio valide e costruttive sia per gli uditori che per i loro familiari. In alcune situazioni, come spiegava Cristina, sono proprio i familiari i destinatari principali di un lavoro di sostegno e di empowerment: l’aumento della loro consapevolezza e delle capacità di gestione delle situazioni può contribuire a rassicurare i congiunti; ciò migliora i rapporti ed aiuta a superare blocchi e resistenze. Se anche non favorisce la “guarigione” o l’eliminazione delle voci, rende pur sempre più sostenibile il quotidiano.

Il lavoro da svolgere è molto e non sempre di facile impostazione, per rendere utilizzabili sia il metodo per agevolare gli uditori ed i loro familiari, sia una validazione in ambito scientifico della tecnica. Come sopra segnalato rimane cruciale definire l’entità del problema nella popolazione generale, per cui il primo passo da farsi è senz’altro quello di “censire” un certo numero di soggetti con tali percezioni anche al di fuori dei canali delle strutture di Salute Mentale. Il rilievo che un simile fenomeno può non essere solo di pertinenza patologica può consentire una collaborazione più proficua tra professionisti, in modo da sviluppare, poi, percorsi di assistenza o di auto mirati, validati ed efficaci.

 (Luisa Zoni)

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